La famiglia Lisbon ha cinque figlie, cinque belle ragazze adolescenti tra i 13 e i 17 anni; nell’arco di un unico anno decideranno tutte di togliersi la vita. Nel libro di Jeffrey Eugenides “Le vergini suicide”, da cui è stato tratto anche il film “Il giardino delle vergini suicide” si indaga il lato oscuro del diventare adulti.
A vent’anni di distanza dalla tragedia un gruppo di coetanei maschi decide di rievocare la storia misteriosa delle cinque sorelle Lisbon, di indagare i motivi del loro gesto; le ragazze, nell’arco della loro breve esistenza, hanno rappresentato, per coloro i quali si accingono a narrarne la storia, il sogno proibito dell’adolescenza.
Un’educazione rigida e bigotta
Dal racconto viene fuori uno spaccato dolente: le ragazze vivevano in ostaggio di due genitori rigidi, incapaci di accettare il passaggio di crescita da bimbe ad adolescenti e donne che le figlie si trovavano ad affrontare.
La madre esercita sulle figlie un’autorità opprimente, impedendo loro di uscire, frequentare ragazzi, ascoltare musica, truccarsi; insomma, di crescere. Il padre si limita a sottostare alle decisioni educative della moglie.
In famiglia la tensione sale, fino a condurre al tentato suicidio dell’ultimogenita, la tredicenne Cecilia, che si taglia le vene nella vasca da bagno.
Il tentativo fallisce, ma quando il medico dell’ospedale liquida la faccenda dicendole:
“Che ci fai qui, piccola? Non puoi sapere quanto è brutta la vita, giovane come sei”
Cecilia risponde, lapidaria:
“Dottore è evidente che lei non è mai stato una ragazza di tredici anni”.
Dopo questo episodio viene consigliato ai coniugi Lisbon di adottare regole un po’ meno rigide, poiché a Cecilia e alle altre figlie sarebbe giovato avere una possibilità di espressione sociale, al di fuori della scuola, per poter interagire con dei coetanei maschi.
Apparentemente le cose sembrano modificarsi, e i coniugi organizzano una festa, aperta a pochi, selezionatissimi invitati; si tratta, tuttavia di una resa di facciata, che determina attrito tra i due coniugi. Durante la festa Cecilia approfitta del fatto che la sorveglianza su di lei si è allentata e riprova ad uccidersi lanciandosi dalla finestra. Questa volta ci riesce.
L’incapacità di comprendere
Sia i genitori che la comunità non colgono la tremenda gravità della cosa; fanno di tutto per considerarlo una sorta di incidente, un evento maturato nel nulla, che non ha spiegazioni. La famiglia Lisbon riprende a vivere nel solito modo; la madre vigila sulle figlie, l’unica uscita “ufficiale” è la messa della domenica. Ci sono scontri accesi, soprattutto con la terzogenita, Lux, più impetuosa e ribelle, che viene costretta a dare fuoco ai suoi dischi rock.
Di giorno in giorno la situazione si fa sempre più grave, ma nessuno, nel vicinato, sembra interessarsene; le cose degenerano a tal punto che le ragazze non escono più, non vanno neanche a scuola, vivono imprigionate in casa, fino ad arrivare al tragico epilogo.
Accettare la diversità dei figli
Neanche dopo che tutte le figlie si sono tolte la vita i coniugi Lisbon sembrano rendersi conto del ruolo avuto nella vicenda; a distanza di anni, interrogata sull’argomento, la signora Lisbon dà una risposta senza appello
“È questo che è spaventoso. Non lo so. Una volta che li hai partoriti i figli non sono più gli stessi“.
Sembra che questa madre non fosse in grado di avere un rapporto con le figlie come persone autonome e diverse da sé; l’unico modo in cui era in grado di relazionarsi a loro era quello di bloccarle in un’infanzia eterna.
ll libro descrive l’ostinazione con cui la signora Lisbon stronca gli slanci vitali delle figlie, la passività del padre, l’ottusità della comunità circostante che non sa o non vuole vedere e che si ostina ad incolpare dell’accaduto il contesto storico e la predisposizione genetica.
Gli spunti di riflessione sono tanti: i rischi e le storture di un’educazione troppo rigida, la necessità di intervenire in modo mirato per scongiurare che l’energia vitale appassisca senza rimedio; l’importanza di non mostrarsi indifferenti rispetto al dolore ed al bisogno d’aiuto di chi circonda. Nel disagio del prossimo ci può essere sempre riflesso il nostro stesso malessere.